PIL e affari loschi…

Si sente spesso dire, nei dibattiti televisivi o sui giornali: “ siamo in recessione secondo l’ISTAT ma se al PIL ufficiale fosse sommata l’evasione fiscale che in Italia è elevatissima, in realtà il PIL sarebbe in crescita” . Che cosa dire di quest’argomentazione? Sicuramente falsa.

La contabilità nazionale rileva tutti i flussi economici di un’economia e il PIL ne è la principale sintesi. Il termine contabilità deriva dal fatto che i flussi vengono registrati come risorse e come impieghi con un vincolo di coerenza: le uscite devono essere uguali alle entrate, i crediti uguali ai debiti.

Keynes diede incarico al suo allievo Richard Stone di creare un modello di contabilità per le economie e da allora si sono redatti manuali mondiali del Sistema di Conti Nazionali (detti SNA – System of National Accounts).

Quello europeo (SEC o ESA) è un sistema derivato da quello mondiale: il primo fu presentato nel 1970, poi arrivò quello del 1995 (che teneva conto della caduta dei sistemi socialisti che avevano un loro sistema detto SPM).

Già nella versione del ’95 si prevedeva non solo che si tenesse conto dell’evasione (per attività intrinsicamente lecite) ma anche che si considerassero quelle attività di mercato che avessero il consenso dei contraenti, benché vietate dalle leggi di alcuni paesi come contrabbando, prostituzione e commercio di stupefacenti.

Solo ora questa ultima parte delle direttive entrano in vigore, a causa del superamento di varie riserve mostrate dagli Stati sull’uniformità delle rilevazioni e grazie alla loro conferma nel sistema che è da poco entrato in vigore (SEC 2010).

Non sono invece comprese le attività criminali dove manca il consenso di una delle parti.

Pensate per esempio all’Olanda dove sia la vendita di sostanze stupefacenti che la prostituzione solo legali, e da qui la necessità di adottare un sistema statistico uniforme che compensasse per questa disparità negli Stati che non prevedono legalmente queste attività (ma che le producono a tutti gli effetti).

Il raporto deficit/PIL ne sarà certamente influenzato come anche quello debito/PIL (caleranno entrambi anche se di poco). Nessun vantaggio previsto tuttavia, a parte il fatto che ciò aiuterà tutti a rispettare i vincoli europei.

La soluzione ai nostri problemi? Neanche a parlarne fino a quando queste attività rimarranno prive di tassazione in quanto, appunto, illegali in Italia (e non certo sempre a torto come neanche sempre a ragione). Ma questa non è Economia…

La Bassa… da leggere

Vi segnalo questa breve recensione che ho pubblicato sul sito linkarte.it

Riguarda il piccolo comune di San Secondo parmense e le sue storie.

“Man mano che ti avvicini al comune di Sansecondo, Sasgònd, per i nativi del posto, forse per la buona Fortana che scalda le gote, forse per la Spalla cotta che riempie tutti i sensi, o forse per il sussurrare misterioso del Po, che da lontano saluta il paese, cavandone, come da una viola, suoni melodiosi, hai la sensazione che ti accompagni una musica sottile, che diventa concerto quando ci arrivi.

San ‘Secondo’, manco a dirlo, è il ‘primo’ cumulo ordinato di case in cui inciampare percorrendo la Provinciale che collega il bel Ducato di Parma ai ruvidi margini della “Bassa” parmense. Un po’ terra di mezzo, incastonata nel cuore della valle padana, ma a due passi dalle lusinghe cittadine, un po’ crocevia di scrittori e musici (Guareschi e Verdi), avvolta nel mistero del Grande Fiume, che la influenza ma non la lambisce. Un po’ terra di contradaioli e di orgoglio partigiano, un po’ landa di mezzadri e braccianti. Patria indiscussa della omonima Spalla Cotta e del buon vinello locale (Fortanina), è tappa imprescindibile per chi voglia iniziare a camminare sulle impalpabili tracce del Po.”

http://www.linkarte.it/news/?ID=7849

 

DIARIO DELLA BELLA ITALIA: dalla Cisa al Lazio senza mappa, a piedi sulle orme della via Francigena

Il pellegrino è colui che cerca, accettando l’incalcolabile rischio di trovare veramente. Perché trovare significa non essere più quello che si era prima. È cambiare. È morire. Per rinascere” (Davide Gandini)

Per i più la Via Francigena è quell’ideale percorso che da Canterbury accompagnava a Roma i pellegrini crisitani, alla ricerca della perduta Patria Celeste, in chiave religiosa. Il pellegrino, da noi, si confonde con il fedele, perdendo la valenza laica e universale della possibilità e del mutamento interiore.

Lasciatevi proporre un punto di fuga differente, un’ottica nuova, di ricoperta del territorio e dello spirito, a piedi: lontano dall’eucarestia mistica del percorso verso Dio, ecco un piccolo cammino da intraprendere per ritrovare se stessi e disfarsi dei pesi, da soli o in compagnia. Condividendo attimi di viaggio e di vita con un diario spiegazzato o rincorrendo l’incendio di albe e tramonti che la nostra meravigliosa Italia può regalare.

Camminiamo insieme lungo i lastricati e i sentieri che la Via Francigena offre ai piedi dei turisti, quei turisti dolci, lenti, troppo spesso definiti slow. Tutto l’itinerario che disegnamo è segnalato con dovizia e cura, tanto da essere completamente percorribile con l’unico ausilio della segnaletica verticale.

Perché un viaggio a piedi

Camminare a piedi, lungo i percorsi meno battuti dall’avidità umana è di per sé un gesto coraggioso, eroico. Chi cammina nella natura ha in generale l’impressione di riappropriarsi del proprio tempo, si riappropria del proprio spazio, e si rende conto meglio di altri di quale prezzo stiamo pagando alla modernità e agli agi.

Altra curiosità del viaggio a piedi è la gratuità intrinseca a questo metodo di spostamento. Camminare non costa nulla e spesso, nei secoli, si è consolidata l’abitudine a fornire riparo e nutrimento ai viandanti in cambio di notizie e saperi. Una rivisitazione in chiave moderna del mito della trasmissione orale del sapere. Oggi, l’avvento dei mass media ha introiettato nelle nostre menti la falsa impressione di non avere più bisogno della trasmissione orale. Ma la storia di vita vissuta di un camminatore errante può aprirci mondi e immagini lontante e differenti. Può consentirci di raccogliere informazioni dirette anziché mediate. Può aiutarci a ricordare il significato profondo dell’Accoglienza.

Viaggere a piedi senza soldi, confidando nella generosità delle persone e/o in organizzazioni in grado di accogliere gratuitamente i pellegrini, insomma, è il metodo ad impatto zero per eccellenza, la vera sostenibilità di intenti e cuore.

Groppo Dalosio, ponte sulla Via Francigena, foto di Enrico Caracciolo, all rights reserved
Groppo Dalosio, ponte sulla Via Francigena, foto di Enrico Caracciolo, all rights reserved

La Via Francigena della lunigiana
Si può idelamente partire dalla puntigliosa Liguria. Il borgo di Groppodalosio si trova in Valdantena, lungo l’antico tracciato della Via Francigena che proprio sotto il paese attraversa un ponte in pietra medievale ad un’unica arcata, una delle attrazioni principali del percorso in Lunigiana. Da qui è possibile cominciare a camminare, magari lasciando l’auto nei dintorni, bypassando la tappa di Berceto e camminando per ore attraverso suggestioni storiche e spirituali, ma anche ambientali.

La discesa tra Liguria e Toscana è accompagnata da ulivi e cipressi, il paesaggio torna ad addolcirsi e si potrà sostare ad ammirare la Pieve di Sorano e l’abbazia di San Caprasio, il borgo-castello di Bibola e la Pieve di Sant’Andrea a Sarzana.

Via Francigena a Groppo Dalosio in autunno, foto di Enrico Caracciolo, all rights reserved
Via Francigena a Groppo Dalosio in autunno, foto di Enrico Caracciolo, all rights reserved
Ponte "tibetano" sulla via Francigena della lunigiana, foto di Enrico Caraciolo, all rights reserved
Ponte “tibetano” sulla via Francigena della lunigiana, foto di Enrico Caracciolo, all rights reserved

La Via Francigena senese

La via Francigena prosegue implacabile e si imbaionetta tra filari di cipressi guardinghi e ordinati. Stiamo per giungere nelle terre di Siena, itinerario considerato tra i più suggestivi e belli della Francigena.

San Gimignano alletta con le sue torri e la sua silhouette fiabesca. Come nel medioevo il rosso–ocra della terra di Siena accompagna sui sentieri che  portano nella Valdelsa con la splendida Badia romanica di Coneo, Colle Val d’Elsa e Monteriggioni, bellissima cittadina medioevale circondata da una imponente e intatta cinta muraria.

Vista sui vigneti, Chianti, Via Francigena, foto di Enrico Caracciolo, all rights reserved
Vista sui vigneti, Chianti, Via Francigena, foto di Enrico Caracciolo, all rights reserved

Passando per Siena si prosegue in direzione sud. La Val d’Arbia si presenta con le dolci colline delle crete senesi, si comincia a scrivere la storia della Via Francigena: edifici nati a servizio della strada come alberghi e spedali, pievi, canoniche e badie, strutture fortificate come la grancia di Cuna, un tempo deposito di granaglie per l’ospedale di Santa Maria della Scala di Siena. Buonconvento con il suo bellissimo centro storico, situato nel cuore delle Crete accoglie i visitatori con un abbraccio caldo. Si prosegue in Val d’Orcia, verdi dune di erba morbida. Colline di bambagia che si rincorrono lente, in uno spazio etereo. I piedi più provati potranno trovare ristoro presso l’Agriturismo Grossola, splendido casale in pietra a Castiglione d’Orcia. Indiscussa bellezza nostrana, accoccolata su un colle, saluta i viandanti in direzione Bagno Vignoni, autentica perla.

Val d'Orcia, foto di Enrico Caracciolo, all rights reserved
Val d’Orcia, foto di Enrico Caracciolo, all rights reserved
Panorama da Vignoni vecchia, foto di Enrico Caracciolo, all rights reserved
Panorama da Vignoni vecchia, foto di Enrico Caracciolo, all rights reserved
Bagno Vignoni, acqua termale, foto di Enrico Caracciolo, all rights reserved
Bagno Vignoni, acqua termale, foto di Enrico Caracciolo, all rights reserved

Si prosegue ancora, all’inseguimento delle lusinghe grossetane, ammiccando alla Maremma, dall’alto dei crinali la strada si addentra costeggiando la via Cassia, passando per le Briccole, antico ospedale e stazione citata da Sigerico come Abricula. Attraversato il torrente Formone, si risale il crinale su una strada asfaltata, passando per i casali Le Conie, fino alla rocca di Radicofani.

Camminando sulla Via Francigena, foto di Enrico Caracciolo, all rights reserved
Camminando sulla Via Francigena, foto di Enrico Caracciolo, all rights reserved

La discesa da Radicofani lungo la vecchia Cassia è uno dei tratti più belli ed  emozionanti dell’intera Via Francigena: tutto attorno colline a perdita d’occhio e il Monte Amiata, alle spalle la Rocca.
Da Radicofani la strada scende nella valle del torrente Rigo per congiungersi alla vecchio tracciato della Via Francigena all’altezza dell’omonimo ponte nei pressi della confluenza col fiume Paglia.
Giunti a Ponte a Rigo si percorre qualche chilometro di asfalto prima di entrare nel Lazio, e percorrere una strada sterrata che regala splendidi panorami sulla val di Paglia, fino a Proceno.

I colori della Via Francigena senese, foto di Enrico Caracciolo, all rights reserved
I colori della Via Francigena senese, foto di Enrico Caracciolo, all rights reserved

Dal pellegrinaggio al turismo contemporaneo

Il viaggio, oltre che spostamento fisico, è anche processo di cambiamento mentale. Qualcuno ha sostenuto che sia solo un mezzo per avvicinarsi ad una verità che è già dentro di noi. Duccio Demetrio, a tal proposito, sostiene che anche chi non viaggia possa raggiungere una conoscenza profonda delle cose, a patto che disponga di una “mente inquieta”. Dove per inquieta intende curiosa, non in stato di quiete: in movimento. Da qui si intende come qualsiasi tipo di viaggio possa essere una possibilità di crescita. Ovviamente certe forme di viaggio si prestano più di altre a plasmare l’individuo.
Il pellegrinaggio è sempre stato considerato il “viaggio nell’anima”, ciononostante anche questa forma di viaggio sacro è soggetta a cambiamenti nel tempo, tanto è veroche oggi viene considerato anche come una forma di turismo culturale. Proprio di questo turismo abbiamo voluto raccontarvi in queste poche righe: la fatica, la frequente solitudine, le piaghe, il dormire per terra sono solo una parte di un nuovo mondo, fatto anche di disagi, che nella quotidianità si cerca di evitare. Camminare, quindi, come per riscoprire lentamente il mondo nella sua totalità attraverso la propria intima interiorità; riscoprire il senso profondo dei rapporti umani ricreando un senso di comunità spesso soffocato da gli impegni, dalle esigenze e dalla velocità della vita quotidiana.
Il bello del cammino, foto di Enrico Caracciolo, all rights reserved
Il bello del cammino, foto di Enrico Caracciolo, all rights reserved

RAMONA ZORDINI: le suggestioni dell’acqua

Ramona Zordini è una fotografa e artista visiva italiana, davvero eccezionale e unica nel suo genere, come si suol dire. Poche parole per descriverla e per entrare nel suo mondo fatto di ambiguità e trasizione, condito da un’indagine dettagliata e quasi morbid sul corpo e le sue movenze.

Analizziamo la sua serie Changing time II del 2013, un mirabolante esempio di come la fotografia possa entrare nelle viscere dell’osservatore scardinando la sua tradizionale struttura a due dimensioni.

La protagonista indiscussa della sua opera è l’acqua, un’acqua irrequieta e senza posa, che non conosce inizio o fine. Senza posa come le stesse sembianze umane, ritratte in torsioni voluttuose e circolari.

L’acqua è energia fecondatrice, ma anche purificatrice e implica sempre una trasformazione, una rinascita.

L’acqua, quindi, viene espressa come principio cosmico maschile e femminile da corpi avviluppati e dalle sembianze quasi sofferenti: come a patimento dell’iter di trasformazione, da anima del Mondo, Madre per eccellenza, generatrice di vita, a ibrido feto dallo stato liquido, libero da qualsiasi vincolo e capace di assumere qualsiasi forma. Corpi dinamici, che scorrono e generano trasformazioni, nel flusso del divenire. In nessun momento siamo uguali a noi stessi, questo sembra il monito dell’artista bresciana.

Espansione e profondità, forza ricettiva e purificante, energie segrete e guaritrici: un intento perfettamente riuscito. L’efficacia degli scatti è evidente al primo colpo d’occhio, un viaggio semi onirico in un mondo di suggestioni lente e permanenti: vi consigliamo di dare un’occhiata al sito.

La memoria e l’evoluzione della sfera emotiva sono elementi fondamentali della nostra autodeterminazione. Ma anche se siamo sicuri di poter ‘cogliere l’attimo’ e ci rendiamo conto dell’importanza di ogni secondo, questo momento è già passato.”

Piccola nota dell’autore: posare per questa incredibile artista è un’esperienza quasi mistica; avendola provata in prima persona, in coppia, posso solo ringraziarla: una cascata emotiva di stimoli fisici ed energetici da brivido.

Una sorta di iniziazione; un percorso di trasformazione, un rito di passaggio, che conduce ad una  nuova nascita e sonda la vera intenzione del profano, il suo coraggio fisico e morale. E non si può entrare in una vita nuova se non ci si è  purificati dalle scorie della precedente, se non ci si è liberati dai condizionamenti, dai preconcetti, dai pregiudizi che falsano e mentono. Grazie.


Photo models: Angela Sebastianelli e Francesca Pelagatti

La dittatura dell’austerity: una proposta in controtendenza

Una proposta in controtendenza con le regole di austerity imposte dalla CE. Premetto che ragiono in termini europei (fors’anche di Stati Uniti d’Europa): se l’Europa traina, l’Italia va a rimorchio; per rilanciare i consumi ed innalzare il PIL comunitario non sarebbe opportuno fare una Keynesiana iniezione di spesa pubblica, che in quanto europea non si disperderebbe nella filiera come quella italiana e fungerebbe da perfetto moltiplicatore? L’Europa investe in spesa pubblica circa l’1% del PIL contro il 15% degli Stati Uniti; il plafond necessario per sostenere l’operazione si potrebbe costituire innalzando la tassazione sulle intermediazioni finanziarie.

Voglio dire che non c’è niente di male (ANZI) ad avere dei deficit quando si è in recessione, quello che è assurdo e dannoso è averne quando l’economia tira (anni 80 e 90), perché se si fa così non si avranno le armi giuste quando serviranno. Vale anche l’inverso: è assurdo in linea di principio ridurre i deficit (ridurre la spesa bruscamente senza riqualificarla e/o alzare le tasse) quando già l’economia è depressa: l’effetto non potrà che essere:  il PIL si ridurrà ulteriormente- la tassazione di conseguenza; il deficit e il debito cresceranno di conseguenza; il rapporto debito/PIL quindi sarà più alto del previsto e si tornerà a contrarre la spesa e alzare le tasse, in un circolo che si conclude solo con il deserto (vedi Grecia). Quindi la soluzione quale può essere se non uno stimolo all’iniezione di spesa pubblica?

Lo stimolo quindi si dovrebbe fare, ma ci sono limiti a dove: non certo in Italia o Grecia, Stati già troppo indebitati a causa dell’accumulo di deficit quando le economie andavano bene. Ma la Germania sì che deve espandersi, proprio attraverso uno stimolo keynesiano.

Riguardo il reperimento dalle intermediazioni finanziarie so che si tratta di una misura difficilmente realizzabile in pratica, se la cosa non viene imposta a livello globale, altrimenti l’effetto sarebbe solo la fuga di capitali, si è già avvertito tutto ciò in Europa. Ci vogliono regole sicure e globali, e io credo che la finanza debba mettere il suo doblone, sicuramente.

In merito si è tenuto a Roma un interessantissimo convegno.

Date un’occhiata.

http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-tunnel-infinito-dellausterity-europea/

Forever o For Everyone? La strategia di Iphone 5c

Bisogna ammettere che la comunicazione pubblicitaria assume un ruolo fondamentale nella costruzione della percezione del lusso. Le descrizioni visive e testuali utilizzate nell’annuncio permettono, infatti, all’osservatore di inferire i connotati da associare alla marca e al prodotto. Il processo di inferenza degli attributi di status, di prestigio, di sogno, di qualità, connessi a un soggetto o un oggetto, sulla base degli elementi che lo descrivono, è una predisposizione naturale negli individui. Quindi bisogna stare piuttosto attenti.

Le comunicazioni pubblicitarie per alcuni beni di lusso sottolineano la presenza del bene in pochi punti vendita selezionati per attribuire al bene un connotato di scarsità ed esclusività. Aprirsi ad un mondo differente, comporta non solo un changing nel target, ma anche un profondo ripensamento della strategia perché i prodotti edonistici sono caratterizzati da un consumo di tipo esperenziale, mentre i prodotti utilitaristici sono consumati principalmente per le loro funzioni pratiche e strumentali.

Prendiamo l’Iphone.

Proprio pensando all’Iphone 5c si potrebbe fare un’importante riflessione:

al lancio del nuovo smartphone di punta, Apple di solito abbassava anche il costo dello smartphone precedente. Quest’anno invece ha adottato una tecnica diversa. Oltre al nuovo smartphone top di gamma, l’iPhone 5S, Apple ha ritirato dal mercato la sua versione precedente, l’iPhone 5, sostituendola con il 5C. Molti hanno pensato che rendendo disponibile l’iPhone in più colorazioni, lo smartphone potesse diventare ancora più ambito soprattutto dagli utenti più giovani (qundi una sorta di “apertura” nel target). Per esperienza diretta posso dire che in media dai 12 ai 15 anni in Italia erano molto più diffusi smartphone meno costosi, fino ad oggi.

Ad ogni modo la scelta non è stata solo relativa al target, il costo di produzione di un iPhone 5C si aggira intorno ad i 173-183 dollari. Ciò significa che grazie al policarbonato Apple è riuscita ad abbassare di circa 20-30 dollari il costo di produzione dell’iPhone 5. Inoltre sappiamo che l’iPhone 5 ha una complessità di assemblaggio (scocca metallica) maggiore rispetto a qualsiasi altro smartphone realizzato con scocca in plastica.

Il prezzo a cui questo smartphone viene venduto con o senza abbonamento è lo stesso che avrebbe avuto l’iPhone 5 se non fosse stato tolto dalla produzione. Per Apple è quindi convenuto introdurre l’iPhone 5C perché ha un costo e una difficoltà di produzione minori rispetto all’iPhone 5. In più la novità rappresentata dai colori, permetterà alla società di ottenere un numero di vendite maggiori per quanto riguarda il modello dell’anno precedente. Sembra una policy corretta e lungimirante ma per quanto riguarda il premium price trovo che la scocca in plastica depauperi il valore aggiunto del prodotto. Inoltre è chiaro che la colorazione sia mirata a un pubblico giovane, eliminando in questo modo dal target del 5c professionisti ecc. che dovranno sicuramente ripiegare sul costoso 5s. Insomma, io ho molti dubbi su questa decisione…

Non considero corretta proprio l’introduzione di un “entry level” di consumatori. Apple è un marchio declinato (e declinabile) non solo sui fashion victim ma soprattutto sugli amanti della tecnologia minimal e su quelli che si riconoscono nel marchio, nella sua austerità ed alterigia, non solo per moda, ma per status. La dicotomia quasi manichea Apple-Android la dice lunga…il compratore di Apple sa che avrà un prodotto solitamente “serioso”, ma estremamente riconoscibile nella sua fattura. Insomma, a prescindere dalla tecnologia sottesa (che conosco a spanne), credo che l’errore stia nell’omologazione del 5c. Da lontano non sembra un Iphone, e se non lo “sembra”, pian piano nessuno lo acquisterà più. Perché l’Iphone è quasi una carta di identità.

Un aspetto, poi, che ha contribuito non poco al successo dell’iPhone 4 e 4S è il livello qualitativo dei materiali impiegati. Il fatto che uno smartphone possa avere lo stesso grado di rifinitura e lo stesso “appeal” di un orologio di lusso. Quello che hanno chiamato effetto gioiello: prendendo in mano un iPhone 4 o un iPhone 4S si ha l’impressione di manipolare un oggetto di valore. Il peso, il vetro e l’acciaio, la forma. Tutti elementi che hanno sempre distinto i due telefoni dalla concorrenza plasticosa e un po’ “cheap” dei telefoni concorrenti. Per questo non condivido la realizzazione del 5c e nemmeno una visione limitata alla “moda” del fenomeno.

Anche se, mio malgrado, comprendo la strategia sottesa (che secondo me in Italia, paese di edonisti, non sarà vincente). Ammetto che l’iPhone 5C, in altri contesti, forse, potrebbe avere perfettamente senso.

È un dispositivo totalmente nuovo (almeno nell’aspetto e nel nome, che poi è ciò che conta) che potrebbe quindi sfruttare tutto il potenziale di marketing che la strategia del “declassamento dei dispositivi più vecchi” ha sempre limitato; ha le caratteristiche tecniche di un dispositivo vecchio di un solo anno anche nella versione più economica e compete con dispositivi di fascia media con un prezzo lievemente superiore ad essi, grazie alle ottime prestazioni e a un livello qualitativo che, nonostante la plastica al posto del binomio vetro-acciaio, potrebbe rimanere comunque a “livelli Apple”. Staremo a vedere…

Sono sicura che tutti ammetteranno però che un iPhone 4 o 4S è costruito meglio di un Galaxy SII. La maggior parte dei potenziali clienti forse utilizzerà questo metro per scegliere il dispositivo da comprare. Soprattuto su mercati come il nostro, dove il prezzo pieno comincia a non contare più del prezzo in abbonamento: insomma, io credo ancora alla “poesia dei materiali”…

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Hipster o conformisti?

Smanetto come di consueto tra le dabbenaggini facebookiane in cerca di uno spunto decente per qualche pezzo che non sia sul data gate o sulla fame nel mondo.

Ecco che mi si palesa alla vista un singolare manichino da iconografia tardo sessantottina (uomo, certamente) con frecce e didascalie che ne compendiamo le caratteristiche estetiche: hipster, leggo.

Parte il mio solito moto di incazzo, questo demente sulla sua idea di mito hipster ci ha scritto pure un libro.

Bella roba penso, e continuo a navigare trepidante, aspettando l’illuminazione della Madonna di Lourdes che tarda ad arrivare.

Un attimo, parliamone davvero del mito hipster, e della sua sacralità, affogata nei prosecchi della Parma bene.

Sì, perché per il parmigiano medio l’hipster è la rivisitazione del “fighetto” dei primi del 2000. Baffi, occhiali con montature anni ‘70, iPhone 5s con custodia minimal, jeans stretti, bicicletta a scatto fisso, tatuaggio old school traditional (preferibilmente sugli arti superiori), vegano d’adozione, cultore del bello in genere, con una qualche cultura musicale e letteraria (ove presente, ostentatissima), eco-friendly, eco-chic, eco-qualsiasicosa. Quello che ci stava sul cazzo quando noi avevamo rasta, pantaloni baggy e sporco diffuso su tutto il corpo. I tempi cambiano e gli stili si fondono, non sempre però.

Questo è il mio ideale di finto hipster. Questo è il così detto “parmiota”. Per lo più abita in un monolocale mansardato, possibilmente vicino a qualche rivenditore ò store, che fa più figo, zona centro, adiacenze Borgo Giacomo Tommasini. Si veste al 333 store e prende i ricambi per la bici sempre in Piazzale Cervi, così fa meno fatica. Di solito è molto esperto di cultura orientale, laureato in qualche oscura branca di economia della cooperazione o, meglio, in lettere, ma non sa scrivere nemmeno la lista della spesa. Il sabato sera lo passa dagli amici milanesi, perché Parma è così provinciale… conosce perfettamente tutte le declinazioni della cucina locale, stuprata dai nuovi ristoratori fusion, la sua preghierina è l’ultimo pezzo di qualche sgangherata band della scena underground inglese, il vezzo del venerdì è il cravattino o il papillon. La camicia di jeans è un must, lo smanicato solo se sei molto fashion victim.

Io nell’hipster, invece, ci vedo solo un rivoluzionario intellettuale (vero). Il c.d. Bohemien, l’artista frugale e libertino, solitamente decaduto, spesso squattrinato, che riporta su un taccuino le impressioni di un autunno poderoso ed insolitamente caldo.

Sì, perché il vero hipster la moda l’ha creata, non l’ha subita. Attore dei più sconquassati anni 40, si nutriva di jazz e musica da camera. Una scena colorata da una quantità  spropositata di rimandi alla storia culturale dell’Europa e degli Stati Uniti. Perché “hipster” era l’aggettivo un po’ razzista incollato addosso agli stilosi afroamericani, malati di jazz, con la musica sotto la pelle. Vere linee guida stilistiche ed estetiche per queste subculture, al giorno d’oggi, non esistono. Ogni tentativo di stabilire cosa  è un hipster in generale si scontra con l’incontro di qualcuno che è percettibilmente un hipster, ma che non ha nemmeno una delle caratteristiche che i magazine pubblicano. Un hipster può essere benissimo un cultore della bibbia, di razza indigena, che mangia fichi e patate o una costata sanguinante. Che vesta Prada o Zara non importa. Ma che si dissoci in qualche modo dallo stereotipo, che abbia una conoscenza musicale che non si limiti al solo groove. Il vecchio anticonformista.

Ho un Ipad e un Iphone5, sto acquistando un Macbook (usato), adoro le camicie a fiori sgargianti, d’estate calzo solo boat shoes coi pantaloni arrotolati. Ho solo Tattoo old school. Amo le Birke. Ho un blog e il mio sogno sarebbe scrivere per La Stampa. La camicia la abbottono fino in fondo. Sono un hipster? Sono un individuo, piuttosto.

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Ancora sul caso Barilla: la standardizzazione delle campagne

“La sua azienda rappresenta l’Italia – dice Dario Fo nel suo appello a Barilla su Change.org – un’Italia di coppie di fatto, di famiglie allargate, di famiglie con genitori omosessuali e transgender. Ecco perché le chiedo di ritornare allo spirito di quegli spot degli anni ’50 dove io stesso interpretavo uno spaccato della società in profondo mutamento”.

Sarebbe interessante capire il ruolo di pubblicità e marketing in realzione ad un Italia che cambia, approfondendo il concetto dell’influenza operata da parte dell’ambiente esterno.

Il taglio tradizionalista volto ad accontentare i nostalgici delle “belle famiglie” e unicamente proteso a creare un rapporto di fidelizzazione passivo (la c.d. fidelizzazione “per pigrizia”), lo abbiamo detto nell’ultimo post su Barilla, è comprensibile in un mondo popolato dal diffuso qualunquismo all’italiana.

Ma la standardizzazione esaltata da questo marchio, credo sia ancora più inadeguata e anacronistica. La pasta Barilla viene venduta negli Stati Uniti con le medesime campagne bigotte che spopolano in Italia. Parliamo di un paese (gli US) in cui la comunità gay non è una lobby (si pensi al quartiere gay di San Francisco, alla percentuale di coppie di fatto, al numero di stati che hanno legalizzato i matrimoni gay).

Proviamo a leggere questa tesi, ben fatta (a parte l’impaginato), risalente a quache anno fa.

Fai clic per accedere a martiriggiano-tesi.pdf

Proprio in questo lavoro si afferma:

“I siti dedicati ai consumatori esteri non si limitano ad essere una mera traduzione di quello italiano, ma risultano entità a sé stanti.
Anche dalla loro comparazione, così come nel caso degli spot, emerge la 35 pluralità di stili che la comunicazione Barilla adotta nel rivolgersi alle differenti realtà nazionali: le versioni italiana, francese e tedesca, molto simili tra loro, esaltano “l’universo Barilla” e l’Italia come “paese dei sapori”; quella spagnola e quella messicana appaiono molto attente all’aspetto di etetico; il sito dedicato agli Stati Uniti è invece molto descrittivo, così come quello svedese e quello australiano.”

Emerge, però, questo interrogativo: guardando qualsiasi commercial Barilla US si nota che il leit motiv è la livellazione, sempre tradizionalista.

Il target statunitense è considerato meno informato (per questo il sito è più descrittivo) ma non se ne conoscono le tipicità etniche, culturali e , perché no, sessuali; in Italia ci ostiniamo a non capire il livello di emancipazione degli altri paesi.

Guardate questa campagna per gli Stati Uniti:

La trovo terribile. L’apoteosi del luogo comune, la rivincita dello stereotipo: donne in cucina, uomini che si siedono a tavola. Manca solo la Roma che triangola un calcio in rete in tv, tra le grida inconsulte dei commensali, un grembiulino candido, e il quadretto sarebbe completo.

“Ma non siamo ad un derby e non stiamo giocando nessuna partita. Perché sottolineare sempre (a volte esplicitamente, a volte subdolamente) la dicotomia uomo – donna, ruoli da uomo – ruoli da donna? Il problema è appunto questo. Ragionare in maniera manicheista, dicotomica, ragionare per ruoli.” Qui cito apertamente una mia ex collega di studi, indignata da questo ridicolo gioco al massacro tra masculo e femmina, questa insensata simmetria bilaterale. Stiamo parlando di un mondo fatto di individui complementari, complessi, che si relazionano spesso in maniera caotica e disordinata. Perché riportare tutto alla contrapposizione potere/obbedienza (concetto sociologicamente amorfo tra l’altro)?

Che forse la coppia comando/obbedienza sia l’asse del potere politico in cui i rapporti sono già sottoposti a regole? Per citare la distinzione sostenuta da Habermas nella sua Teoria dell’agire comunicativo, la risposta potrebbe essere che il concetto di comando si accompagna all’agire strategico, mentre l’obbedienza viaggia di pari passo con l’agire regolato da norme. Pertanto questa distinzione tra comando e obbedienza ci permette di isolare il potere giuridicamente qualificato dal mero fatto della forza.

Proprio in ciò, ossia nel fatto che il dovere di obbedire agli ordini è rispettato senza opposizione perché ritenuto giusto, risiede la legittimità delle dittature…

Ma questa è un’altra storia…

Il punto è che, economicamente, certe strategie nel lungo termine possono diventare insostenibili: perché i nostri brand più esportati non provano a capire (come lo fanno gli altri paesi) il peso di certi diversi fattori sulle differenze culturali e preferenze dei consumatori, per stabilire un ordine operativo di priorità nel realizzare la segmentazione del mercato?

Fossi nel team Barilla mi farei una bella analisi di sensitività delle preferenze dei consumatori un po’ più “evoluti” rispetto all’italiano medio…

Il design diventa home-made: FATTELO!

Lo sapevi che ogni anno in Italia vengono utilizzati circa 547,5 milioni cartoni di pizza, abbattendo  un totale di più di 215.000 alberi?

Probabilmente no. E forse non conosci nemmeno “Fattelo!”, un progetto, finanziato tramite una piattaforma di crowdrising, arrivato al suo pieno compimento, che coniuga sostenibilità, innovazione e design, in un’ottica rivoluzionaria.

Alla vigilia del 2014, infatti, la rivoluzione copernicana nel capo del design è fatta con le mani: “Fattelo!” è un progetto opensource in cui tutti gli oggetti progettati sono riproducibili a casa, gratuitamente, utilizzando materiali di recupero o di scarto.

L’obbiettivo è spingere la gente a mettere in moto il cervello e la praticità, per riscoprire la soddisfazione di “far da sé”.

Una praticità punteggiata da spunti di creatività ed ecologia. Si, perché il primo progetto di “Fattelo!” è stata la 01Lamp, una lampada opensource ricavabile dal cartone della pizza. Quel cartone bistrattato, relegato unto e sudicio ai più neri sacchi della spazzatura. “Fattelo!” gli dona vita nuova, nuova linfa, nuovo splendore. Lo ricostruisce con maestria quasi neoclassica, lo forgia, lo imbelletta, lo rimescola. Il risultato è un oggetto prezioso e sofisticato. Da veri intenditori del genere.

Nel 2012 il progetto ha incontrato la sua effettiva rampa di lancio al Fuorisalone di Milano, dove, complice un sapiente corto sul progetto, è stata catturata l’attenzione di Rai5, che l’ha inserito nel programma UBIQ: cool stories about cool people.

Ma qual è il motore del progetto, come si sostenta il team, se la metodologia di riproduzione dell’oggetto è del tutto gratuita e liberamente accessibile?

Il team di “Fattelo!” è convinto che chi vorrà costruire la lampada potrà farla da sé e chi invece vorrà comprarla, la comprerà. Si può scegliere la strada più congeniale, in una prospettiva di comunione di intenti e coesione proattiva.

Chi compra la lampada fornisce un contributo economico al progetto, chi la costruisce dà un contributo in termini di idee e partecipazione.

L’oggettistica è veramente degna di nota: pezzi unici e singolari nella loro semplice accezione, un design declinato sul prodotto, in un’epoca in cui si parla troppo spesso di digitale e immateriale. L’utilità diventa trendy, cool: la rivincita del cartone, il calcio d’angolo infilato in porta dall’old school.

Un progetto pulito ma sofisticato, la possibilità concreta di operare una sintesi personale, di raccontare una storia di successo al 100% italiana. Una nicchia di eccellenza che merita interesse e condivisione.

fattelo-lamp-01-logo

 

Dateci un’occhiata:

http://www.fattelo.com/blog/

 

Nuove frontiere dell’innovation marketing

L’ambiente di marketing, per la dottrina, è rappresentato da tutte quelle forze esterne che possono agevolare, ostacolare, potenziare o compromettere la nostra capacità di produrre effettivamente valore per il mercato.

L’azione di marketing deve quindi partire da una conoscenza profonda dell’ambiente e delle forze che vi operano, riconoscendo in esse minacce e opportunità per l’impresa e la sua azione. La conoscenza ci permetterà di essere poi proattivi rispetto ad esse: anche laddove non si possano influenzare, una logica proattiva potrà permetterci di coglierne al massimo gli effetti positivi o minimizzare l’impatto negativo.

Se il mondo in cui ci muoviamo cambia, deve necessariamente evolversi la nostra modalità di rapportarci ad esso.

Date un’occhiata a questo divertentissimo spot Vileda:

Il mondo cambia, appunto, e cambiano anche le modalità di veicolazione delle campagne pubblicitarie. In questo caso Vileda ha scelto un video che su i social network (soprattutto facebook) verrà condiviso come “funny moment” dagli utenti, ma in realtà, in conclusione, contiene lo slogan…
Molto interessante, a mio avviso. Forse nel futuro le campagne pubblicitarie saranno costellate di “epic fail” per catturare l’attenzione?
Il futuro è nel social, questo è certo.